Categoria: Costume e società
A ben vedere, il film non aggiunge nulla di nuovo a quanto già non si sapesse.

Ancora poche ore e anche in Italia uscirà il controverso film di Mel Gibson sulle ultime ore di Cristo.
Premesso che tutte le polemiche sollevate contro il film hanno ottenuto il risultato di farne un oggetto di culto, con tanto di incassi stratosferici al botteghino grazie ai quali il regista-produttore si ritroverà più ricco di oltre un centinaio di milioni di dollari, il dibattito che ne è scaturito è certamente meritevole di attenzione.
Ciò che però sorprende, dopo che sul film si è già detto di tutto e di più, è l'atteggiamento un po' snob con il quale, superata la polemica sull'antisemitismo, da più parti si vorrebbe liquidare il film in poche battute.
Chi scrive non ha ancora visto il film montato, ma lo conosce per aver preso parte alle riprese e per essere rimasto colpito da quanto già era possibile intravedere dalla lettura del copione. Concentrare un film sulle ultime ore di Cristo è quello che può essere definito il classico uovo di colombo; una vera e propria bomba che stava lì in attesa soltanto di essere innescata.
A ben vedere, il film non aggiunge nulla di nuovo a quanto già non si sapesse.
Se Cristo è stato fustigato e crocifisso secondo i metodi romani, la violenza che si vedrà in sala è certamente molto più vicina alla realtà di quanto non lo siano, invece, i vangeli.
Ma paradossalmente, è proprio questo il torto maggiormente imputato al film di Gibson: una violenza che qualcuno ha definito pornografica e che non ha giustificazioni alla luce della tendenza ormai consolidata di ricordare l'evento in maniera quanto più edulcorata possibile, sullo stile dei vangeli, appunto.
Ora, però, criticare duramente un film per l'uso eccessivo di immagini violente, quando lo scopo dell'autore è proprio quello di raccontare una violenza, appare quanto meno sospetto.
A meno che, non sia da criticare la scelta stessa di fare un film che fa vedere quello che tutti sanno ma che nessuno ha mai "toccato" con mano.
Si potrebbe dire un atteggiamento da censura di guerra, perché è ormai sin troppo dimostrato quanto le immagini possano essere più persuasive delle parole.
Guai, ad esempio, a mostrare le conseguenze delle bombe intelligenti sulla popolazione civile: si potrebbe correre il rischio di vedersi rivolgere troppi interrogativi. Piuttosto, meglio dare risalto a tutto ciò che potrebbe invece essere utilizzato per giustificare la necessità di determinate scelte.

Anche nel caso di un'opera cinematografica, certamente, le immagini possono essere utilizzate per fini i più diversi.
La cinematografia americana, ad esempio, ha contribuito a far crescere generazioni intere con il mito del cowboy buono, portatore di progresso, costretto a difendersi dagli indiani brutti e cattivi; per non dire di tutta la cinematografia di guerra, con i super-tecnologici marine americani, per l'epoca, che muoiono tra mille sofferenze a causa dei metodi di guerra poco ortodossi utilizzati dai vietnamiti.
Giusto, quindi, prendere le distanze da un uso così spregiudicato della sofferenza, finalizzata soltanto a nascondere l'altra faccia della medaglia, la verità di chi non può testimoniare.
Ma in questi casi, appunto, ciò che viene messo in discussione non sono le scelte artistiche degli autori, ma la pretesa di chiamare scelte artistiche ciò che, invece, altro non è che una miserevole operazione di distorsione della storia.

Anche la passione di Gibson, chiaramente, potrebbe non essere esente da questa tentazione di voler raccontare in maniera parziale, utilizzando tutti gli strumenti che il mezzo cinematografico mette a disposizione per creare l'impatto emotivo giusto, per raggiungere scopi diversi dalla risposta al botteghino.
Ma anche se fosse, come già detto, il film non aggiunge nulla di nuovo se non la scelta artistica di far sentire sulla pelle degli spettatori, una ad una, tutte le sofferenze patite da Cristo.
Il film è volutamente violento perché si pone come obiettivo il voler raccontare una violenza che c'è stata e per la quale, a distanza di secoli, credenti o no, non possono esservi giustificazioni.
Ed eccola qui, quindi, la provocazione che il film produce, indipendentemente dalle reali intenzioni.
La violenza che vi si racconta è vera e i responsabili di quella violenza hanno un nome. Sentire quella violenza sulla pelle ha il risultato di far celebrare, nella mente di ognuno, un nuovo processo, con dei nuovi capi d'accusa, con dei nuovi imputati.
E tutto ciò, è da considerare un danno o un merito?
Da ateo, pur nella consapevolezza che nella testa del regista potrebbero nascondersi altre finalità, ho interpretato la passione di Gibson come un duro ed incisivo atto d'accusa nei confronti di ogni intolleranza religiosa.
Certamente, rivangare un passato fatto più dagli uomini che dalle sacre scritture, quali che siano, potrebbe non avere senso.
Potrebbe averlo, però, se tutto ciò potesse servire a non ripetere gli errori del passato.